“..allora non chiederti per chi suona la campana. Essa suona per te”. Così diceva Robert Jordan, il celebre personaggio di Hemingway nel suo libro forse più letto e famoso. Anche a me, giovedì scorso appena sveglio come di solito abbastanza presto, è parso di sentire il rintocco di una campana. Avevo appena aperto la radio. Ma forse era soltanto le campane della Basilica di San Lorenzo che segnavano le 7,00. In tanto, la radio informava che quanto temuto stava realizzandosi; allora ho avvertito, nonostante le finestre ancora chiuse, una ventata colpirmi il viso; erano i venti di guerra che cominciavano a soffiare anche su di me.
Sono stato poi assalito, a seguito delle notizie sempre più allarmanti che si accavallavano alla radio e in televisione, da uno stato d’ansia, ancora labile ma palpabile. Ho quindi considerato che effettivamente la “campana stava suonando anche per me”. Nessuno può ritenersi fuori da quello che accade nel “villaggio globale”, mi sono detto.
Questa globalizzazione, vettore del benessere diffuso, come accade sempre, è anche portatrice di insidie ed eccessi. Gli eccessi dell’uomo e le insidie della natura, anche lei in parte effetto dell’uomo stesso.
Quando quindi stavamo convincendoci di aver battuto (sia pur avendo pagato il prezzo di troppe vittime) il nemico invisibile della pandemia, per sua natura globale, siamo di nuovo precipitati in una situazione di crisi mondiale; una crisi parimenti profonda ma probabilmente meno accettabile e più difficilmente gestibile. Mentre infatti il mondo intero ha reagito alla pandemia in maniera compatta ed unanime considerandola una comune minaccia esterna, il senso di questa guerra invece – un altro tipo di pandemia che non ci viene da fattori esterni all’uomo – non viene compreso e conseguentemente sta generando in tutti noi un alto tasso di ansia.
L’ansia per quanto mi riguarda è nata – e per altro ancora l’avverto- per una serie di considerazioni.
Ho pensato che ancora una volta ci fosse qualcuno che stava decidendo per me, che non ero padrone del mio destino; mi sono quindi sentito inerme e inadeguato di fronte a un fatto che non potevo controllare ma soltanto subire. “Cosa posso fare?” una domanda alla quale non ho saputo rispondere.
In effetti, la nostra società, e quindi anche io, non è abituata alla guerra; non l’ha mai vista, non è stata addestrata a resisterle e a conviverci.
La nostra ultima guerra – la II mondiale – risale a 75 anni fa. Quindi almeno due generazioni sono cresciute e maturate conoscendo la guerra solo dal cinema nella spettacolarizzazione dei grandi film hollywoodiani. Anche le guerre vere, quelle che realmente si combattono nel mondo, quelle che si guardano distrattamente alla TV, hanno assunto la veste di fiction. Queste generazioni sono quindi fortunate ma contemporaneamente non immunizzate; in qualche modo, meno preparate a sostenere questo evento. Sono Generazioni che non sanno cosa sia una tessera annonaria, il suono di una sirena di un allarme, un rifugio anti-attacco aereo.
Ma sono proprio quelle che oggi sono alla testa delle industrie e delle banche, che ci rappresentano in parlamento e quindi in sostanza ci governano.
In sintesi, mi sono detto, che siamo un popolo da una parte impreparato alla guerra, dall’altra siamo portati a sottovalutarne le sue conseguenze nefande perché in qualche modo pensiamo fatalisticamente che in qualche modo “la cosa si sistemerà”.
Allora come si spiega questo latente stato di ansia che ci sta prendendo?
Allo stato tutti noi siamo infatti convinti che la guerra non arriverà nel nostro paese. La consideriamo un’ipotesi fantascientifica in quanto nella realtà non l’abbiamo mai vista. Certo la visione dei palazzi sfregiati dall’artiglieria ci colpisce, ma, forse non si tratta soltanto di un moto di umana condivisione. Forse nutriamo un sentimento diverso, come quello dell’uomo che – come racconta Lucrezio – si doleva nel vedere dalla riva di un fiume una persona affogare soltanto perché si immedesimava nella situazione; quindi, si preoccupava e rattristava soltanto per sé stesso!
Ma se pure non avvertiamo il rischio di una guerra dentro casa nostra, tuttavia sappiamo che la guerra moderna è ben diversa da quella del passato; si combatte con armi diverse su obbiettivi distruttivi diversi, spesso più cruciali di quelli conseguiti con le bombe, anche atomiche, biologiche o chimiche. E ‘un’altra conseguenza del villaggio globale del quale noi siamo stati artefici e ora possiamo diventare vittime. Oggi le strategie di Carl Von Clausewitz valgono poco. Altri sono gli ordigni che possono colpirci senza trovarci sulla linea del fuoco.
La guerra commerciale e quella finanziaria costituiscono infatti un forte strumento di difesa o attacco, comunque un deterrente costoso per tutti, che si affianca a quella tradizionale, fisica e cruenta.
Questo stato di ansia ci sta prendendo a poco a poco proprio perché nella gerarchia dei nostri interessi noi – lontani dalla linea del fuoco – vediamo al primo posto la rinuncia al nostro stile di vita, messo in pericolo dal congelamento del villaggio globale. L’economia mondiale è infatti concepita come un intreccio di interconnessioni sensibili a qualsiasi turbativa esterna. E la guerra costituisce certamente la più funesta delle turbative.
Le borse crollano e di conseguenza i nostri risparmi si dimezzano; il gas, già a livelli di prezzo elevatissimi, rischia di essere razionato così come la benzina ed altri beni di minore necessità ma ormai comunemente considerati primari spariscono dai negozi. Qualcuno di noi, con maggiore memoria, già pensa ai succedanei disponibili, quali la carbonella per cucinare piuttosto che lo scaldino per scaldarsi o il calesse per gli spostamenti.
La prudente risposta con la quale i governi stanno reagendo allo stato di guerra probabilmente non dipende soltanto dalla virtuosa volontà di evitare un disastroso conflitto. Ma, come è giusto e condivisibile, anche dall’intento di tenersi indenni, o quanto meno minimizzare gli effetti del conflitto sulle loro economie. In questo senso vanno lette e giudicate le sanzioni fin qui decretate che riguardano persone fisiche piuttosto che i Paesi.
Del resto, probabilmente nel realizzare la c.d. globalizzazione, per effetto della quale tutti i Paesi sono interconnessi e nessuno è più “autonomo”, abbiamo peccato di superbia o comunque abbiamo sottovalutato il lato oscuro della natura umana. Diplomazia, concordia e conseguentemente PACE sono le uniche opzioni possibili per il mondo globalizzato.
A questo punto ci resta soltanto di augurarci che il conflitto venga riassorbito e ricondotto in un dialogo che produca, se non una pacificazione integrale, quanto meno una convivenza civile e, soprattutto, disarmata.
Non condivido invece il pensiero di quelli che vanno blaterando: “per certa gente ci vorrebbe ogni vent’anni una bella (!) guerra. Allora forse capirebbe sulla sua pelle – anche considerando le disfunzioni del sistema – quanto sia apprezzabile ed autentica la libertà della quale noi godiamo nel nostro paese. Lo dicono soltanto perché, io credo, una guerra in vita loro non l’hanno mia vista e quindi sofferta.
A loro dico: comunque ed in ogni caso scelgo la Pace!